Contratti e articolo 18, così la riforma del lavoro. Da giovedì la legge delega sarà in commissione al Senato
Roberto Mania. È quella sul lavoro la prossima partita chiave del governo Renzi. La partita decisiva, forse. Perché il presidente della Bce, Mario Draghi, pensava anche all’Italia se non soprattutto all’Italia quando dal vertice dei banchieri centrali sulle montagne americane di Jackson Hole, una decina di giorni fa, ha detto: «Le riforme strutturali sul lavoro non sono più rinviabili». Il governo ha già allungato i tempi, ma ora la strada non ha alternative. Da giovedì la Commissione Lavoro di palazzo Madama riprenderà l’esame del Jobs Act (la legge delega del governo firmata dal presidente Renzi e dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti) dopo aver accantonato prima della pausa agostana il capitolo sul riordino delle forme contrattuali (lì dove si scorge la sagoma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori) per far spazio sì all’approvazione della riforma del Senato, ma anche per far decantare le divisioni nella maggioranza.
Da giovedì tutto ritornerà a galla con il Pd (il partito del premier) restìo ad allargare il campo alla rivisitazione dello Statuto del 1970 e le altre forze della maggioranza (Ncd e Scelta civica) che propongono specificatamente di superare l’articolo 18 il quale, dopo la riforma Fornero di due anni fa, prevede il reintegro automatico nel posto di lavoro solo nel caso di licenziamento discriminatorio o di licenziamento economico insussistente. Pur tuttavia l’articolo 18 sembra di nuovo destinato a diventare l’oggetto del contendere. E i tempi stringono: entro la metà di settembre la Commissione, presieduta da Maurizio Sacconi (Ncd) dovrebbe concludere l’esame della delega ed entro la fine del mese dovrebbe arrivare il via libera del Senato. Poi il passaggio alla Camera con l’obiettivo di chiudere tutto entro l’anno. Poletti sta già predisponendo i diversi decreti delegati perché tutto sia operativo entro la prima metà del 2015.
Nei suoi sei articoli la legge delega non accenna nemmeno alla questione dei licenziamenti. Che però può rientrare attraverso, appunto il riordino dei contratti di lavoro. Ncd e Sc puntano a un contratto a tempo indeterminato con l’introduzione dell’indennizzo in caso di licenziamento senza giusta causa. Soluzione che piace anche alla Confindustria di Giorgio Squinzi («quella del contratto unico è la direzione giusta», ha detto ieri dalla Festa dell’Unità a Bologna). Il Pd propone un contratto di inserimento a protezioni cre- scenti nel quale non si applichi l’articolo 18 esclusivamente nei primi tre anni, considerato un lungo periodo di prova oltre il quale le regole devono uniformarsi. Il governo non ha ancora scoperto le sue carte. Dice che aspetta le decisioni del Parlamento. Ma sa che su questo si gioca un pezzo di credibilità sullo scenario europeo e che su questo, dunque, verrà valutato, dagli investitori finanziari, dai “guardiani” della Commissione di Bruxelles e dall’Eurotower di Francoforte, il grado discontinuità della sua azione. Un simbolo, nel bene e nel male.
D’altra parte né Renzi né Poletti hanno mai detto che l’articolo 18 resterà così com’è. Hanno sostenuto che non è quello il cuore del Jobs Act che effettivamente ha l’ambizione di riordinare, e semplificare, le norme e le procedure sul lavoro, riducendo le attuali differenze tra lavoratori garantiti e outsider. E poi che hanno scelto di agire in due tempi: prima il decreto sulla semplificazione dei contratti a termine, poi la delega sul lavoro. Renzi ha però detto di più: ha spiegato che il governo intende riscrivere lo Statuto dei lavoratori «e riscrivendolo — ha aggiunto — pensiamo alla ragazza di 25 anni che non può aspettare un bambino perché non ha le garanzie minime». «Non parliamo solo di articolo 18 che riguarda una discussione tra destra e sinistra. Parliamo di come dare lavoro alle nuove generazioni». Da qui a fine anno si capirà come questi principi si tradurranno nella riforma. Perché la legge delega molto ampia e non stringente nei «principi e criteri direttivi » (qualche giurista ha già storto il naso) non fa presagire quali saranno le soluzioni definitive.
E non sono affatto di secondaria importanza gli altri articoli della legge delega: riforma degli ammortizzatori sociali per introdurre tutele uguali per tutti; rilancio delle politiche attive per il lavoro con la costituzione di un’Agenzia nazionale per l’impiego; tutela per la maternità di tutte le donne lavoratrici indipendentemente dal contratto di lavoro.
Abrogazione o tutela crescente. Riparte il cantiere sull’articolo 18
Antonella Baccaro. Jobs act. Si ricomincia. Riparte giovedì in commissione Lavoro al Senato l’esame della legge delega, interrottosi per la pausa estiva, ma anche per l’emergere di divergenze in seno alla maggioranza sull’articolo 4, il riordino delle forme contrattuali che ha ricadute sull’articolo 18. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha ribadito che l’approvazione della delega avverrà entro la fine dell’anno, in modo che i decreti discendenti dalla delega possano essere varati nella prima parte del 2015.
L’invito di Draghi
Ma intanto intorno al tema delle riforme si va accendendo il dibattito interno all’Unione Europea, soprattutto dopo le parole del presidente della Bce, Mario Draghi, che nel discorso a Jackson Hole le ha invocate, collegando in qualche modo a queste la possibilità di derogare al rigore per il tempo necessario a implementarle. Nel frattempo il premier Matteo Renzi ha già annunciato un consiglio straordinario a ottobre sulla crescita e oggi illustrerà il programma dei mille giorni che ha proprio come obiettivo lo scambio tra riforme strutturali e flessibilità. La madre di tutte le riforme resta quella del lavoro, come ha fatto notare lo stesso Draghi quando ha sottolineato che le riforme strutturali sul lavoro «non sono più rinviabili».
«La prima scadenza — ha detto ieri il viceministro dell’Economia, Enrico Morando — è la riforma del lavoro che si trova già nella commissione del Senato, poi dovrebbe arrivare la giustizia per la quale sono stati approntati i decreti e i disegni di legge relativi, quindi contiamo di concludere l’iter della delega fiscale».
Le priorità
Ecco dunque il programma, che parte dal lavoro. Qui però Renzi dovrà finalmente svelare la propria posizione sul tema dirimente dell’articolo 18. Finora il premier si è limitato a dire che non si parlerà «solo» di articolo 18 ma di una revisione dello Statuto dei lavoratori, con ciò non svelando da quale parte stia.
La proposta Alfano
Le posizioni in campo sono sostanzialmente due. La proposta di Ncd, Angelino Alfano in testa, Sc, PI e Svp, contenuta in un emendamento presentato a luglio in commissione, prevede una delega al governo a presentare entro sei mesi un decreto con un testo unico semplificato sui rapporti di lavoro. Ferme restando le attuali forme contrattuali a termine, si interverrebbe sul contratto a tempo indeterminato prevedendo per i nuovi rapporti di lavoro l’assunzione in prova per massimo tre anni senza le tutele dell’articolo 18. Quindi, dopo i tre anni, chi venisse licenziato avrebbe diritto solo a un indennizzo economico, in base all’anzianità di servizio.
La posizione del Pd
Dall’altra parte c’è la posizione del Pd, secondo cui nella delega non è prevista la modifica del contratto a tempo indeterminato. Si propone invece di introdurre un nuovo contratto d’inserimento a tutela crescente, che prevede al termine dei tre anni una decisione sull’assumere o meno il lavoratore. Nel caso lo si assuma, il contratto diventa a tempo indeterminato, dunque conserva la tutela dell’articolo 18, così come lo ha riformato la legge Fornero. «Si dovrà trattare di un contratto meno costoso degli altri», chiarisce Cesare Damiano. Si pensa a un credito d’imposta o a un taglio dell’Irap per incentivarlo.
Sul punto il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, renziano, ha richiamato due modelli di riferimento possibili: la proposta Damiano-Madia o quella Boeri-Garibaldi. Entrambi comunque prevedono che «oltre i tre anni, il lavoratore accede all’articolo 18».
Come si vede, le posizioni sono distanti. Lo sono ancor di più se si pensa che per Ncd si dovrebbe andare oltre l’articolo 18 e abrogare anche le mansioni «in modo da consentire una reale flessibilità del lavoro», come spiega il presidente della commissione del Senato, Maurizio Sacconi. Anche su questo punto Damiano si pone in netto contrasto: «Non ci siamo. Possiamo riformare lo Statuto dei lavoratori nella parte in cui sono vietati i controlli a distanza perché ormai la tecnologia li rende anacronistici, ma non il capitolo delle mansioni».
Confindustria e sindacati
La discussione è accesa. E che il tema sia caldo lo testimonia anche il pressing esterno: ieri il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha auspicato che si proceda nella direzione «del contratto unico, che sia conveniente per le imprese e i lavoratori», con questo volendosi spendere a favore della revisione del contratto a tempo indeterminato.
E i sindacati? «Non capisco perché bisogna togliere l’articolo 18 — ha detto il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni —. Solo perché non riguarda tutti i lavoratori? Casomai bisogna estenderlo a chi non lo ha. Peraltro l’articolo 18 è stato già riformato e bene. Perché non si analizzano gli esiti dalla riforma di due, tre anni fa?». Un lavoro che in realtà il governo si è impegnato a fare. Intanto Poletti rivendica come effetto del decreto entrato in vigore a maggio i dati del secondo trimestre dell’anno che registrano un aumento del 16,1% dei contratti di apprendistato e l’incremento dell’1,4% dei contratti a tempo indeterminato, la prima variazione positiva dopo due anni.
Repubblica e Corriere della Sera – 1 settembre 2014