di Stefano Simonetti, dal Sole 24 Ore sanità. Ora veramente si può cominciare sul serio la trattativa. Anche gli ultimi atti propedeutici sono stati formalmente conclusi, quindi non manca nulla per avviare la contrattazione, a parte ovviamente i soldi. Il 13 luglio scorso è stato sottoscritto in via definitiva il contratto quadro sui comparti e sono ormai praticamente ufficiali gli Atti di indirizzo del Comitato di settore. Prima di entrare nel merito occorre però fare due osservazioni di metodo. La prima riguarda una piccola aggiunzione nel testo del Ccnq rispetto alla Preintesa del 5 aprile. All’articolo 8 è stato inserito un comma 2 che testualmente afferma: «i contratti collettivi nazionali di lavoro dovranno essere definiti nell’ambito delle risorse finanziarie che si renderanno disponibili». Ora, il contratto quadro doveva semplicemente definire il numero dei comparti e delle aree negoziali e, sul piano formale, non avrebbe dovuto contenere altro che le elencazioni delle amministrazioni aggregate nei quattro comparti.
La precisazione aggiunta invece è del tutto inutile perché riguardo alle risorse per i rinnovi contrattuali tutto è già scritto. Tra l’altro, perché si accenna risorse contrattuali che «si renderanno disponibili» – con l’utilizzo del verbo al futuro – visto che già ci sono? I 300 milioni per le amministrazioni centrali fissate dal comma 466 della legge di stabilità e lo 0,4% per Sanità e Autonomie locali stabilito dal Dpcm 18 aprile 2016 sono ormai acquisite e irreversibili (o no?).
La seconda osservazione prende atto che gli atti di indirizzo sono quelli per il comparto e per la dirigenza sanitaria mentre del tutto inopinatamente manca la direttiva per la dirigenza professionale, tecnica e amministrativa che, come è noto, è confluita nell’Area negoziale Regioni-Autonomie locali. Questa circostanza può anche avere giustificazioni di carattere sistematico o organizzativo ma è inaccettabile che il Ssn venga spaccato in tal modo relegando ancor di più la dirigenza Pta in una sorta di ghetto. E di tale atteggiamento se ne aveva già sentore leggendo l’Atto di indirizzo del comparto laddove si accenna in modo criptico «all’elemento di impatto organizzativo che produce una filiera della carriera amministrativa, tecnica e professionale non più rientrante appieno nel contesto contrattuale del settore sanità». È tuttavia innegabile che il destino della dirigenza Pta è strettamente legato ai contenuti del decreto delegato ex articolo 11 della legge 124/2015 che dovrà essere adottato entro il 28 agosto prossimo. Una questione però appare già da oggi terribilmente complicata: quella della suddivisione dei fondi di risultato tra la dirigenza sanitaria (che va nell’Area D) e la dirigenza Pta (Area B).
I due documenti del Comitato di Settore sono abbastanza vaghi e contengono tutta una serie di impalpabili affermazioni quali «strumento funzionale per l’attuazione del Patto per la Salute», «motivazione del professionista», «chiarezza del quadro delle responsabilità», «architettura dell’organizzazione». Vengono anche fatti auspici per interventi normativi – francamente fuori luogo in una direttiva all’Aran – tipo il superamento della suddivisione del personale in quattro ruoli, giudicata ormai obsoleta. Mancano peraltro alcune determinazioni essenziali per la trattativa: riguardo alla decorrenza del triennio la tornata contrattuale è 2016-2018 o si deve partire dal 23 luglio 2015, data di pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale? E, ancora, sulla disapplicazione delle clausole pregresse incompatibili, si devono già considerare decadute o è il contratto a doverle individuare? Non sarebbe poi stato male chiarire su cosa andrà applicato lo 0,4%, sul «monte salari utile ai fini contrattuali» (come afferma il Dpcm di aprile) o solo sulle «voci di carattere stipendiale» (come dice l’Accordo del 22 gennaio 2009).
Preliminarmente è necessario segnalare alcuni aspetti di carattere generale comuni ad ambedue i documenti. Innanzitutto si tenta di reperire risorse extra contrattuali ricorrendo al dividendo dell’efficienza di brunettiana memoria. Peraltro questo percorso è già praticabile da cinque anni ma è maledettamente difficile da attuale. Molte perplessità induce la previsione di un Fondo unico, soprattutto per le modalità di gestione. Analogamente è tutta da vedere l’ipotesi della produttività «partendo da base zero». Vengono poi richiamate le assenze per visite e simili per dare applicazione all’articolo 55-septies, comma 5-ter, sospeso dopo la nota sentenza del Tar Lazio. Infine, si tratta della individuazione delle deroghe alla normativa su orari e riposi. Quest’ultima questione poteva essere trattata fin dal 4 novembre 2015 (data dell’Atto di indirizzo specifico) ma situazioni contingenti non hanno finora consentito neanche l’inizio della discussione.
Entrando nel merito di ciascun documento, cominciamo con il personale dei livelli. Saranno individuati nuovi profili ma non c’è traccia di come saranno finanziati i relativi posti. A tale proposito si spera che non si risolva la questione con la classica frase «gli oneri sono a totale carico delle aziende», tante volte utilizzata in passato con effetti decisamente contrastanti. Si va dall’evoluzione dell’Oss attraverso l’istituzione dell’area delle professioni socio-sanitarie fino al professionista specialista che si dovrebbe affiancare al professionista esperto. Per ciò che concerne le modalità di finanziamento degli istituti contrattuali e la necessità di una loro armonizzazione su scala nazionale (ultimo capoverso del paragrafo sui fondi contrattuali), andava detto in modo esplicito che si tratta dell’annosa questione della vecchia indennità infermieristica e della sopravvivenza dell’articolo 40 del contratto del 1999. Pericolosa appare l’idea di togliere dalla capienza del fondo l’indennità per alcune posizioni organizzative perché, gravando sul bilancio, ciò potrebbe costringere le aziende ad sopprimerle con evidenti danni per i titolari.
Passando alla dirigenza medica, veterinaria e sanitaria ci si imbatte in alcune previsioni non chiarissime quali il passaggio tra i livelli di graduazione delle funzioni a parametri oggettivi (si intende l’anzianità?) o di pura demagogia (parità di genere nell’attribuzione degli incarichi). Anche «le strategie per la valorizzazione del dirigente senior» lasciano perplessi e sembrano più da piattaforma sindacale che da atto di indirizzo. Tutto il paragrafo sull’orario di lavoro va bene a condizione che venga affermato con estrema chiarezza che le 38 ore sono l’orario minimo settimanale per tutti. Sinceramente incomprensibile il paragrafo sulla copertura assicurativa visto che della materia ormai se ne appropriato il legislatore (anche se, come è noto, il Ddl Gelli stenta ad andare avanti).
Un passaggio del paragrafo 1 non potrà essere attuato se non con un previo intervento legislativo: in caso di soppressione di strutture è ottima l’idea di «utilizzare i risparmi conseguenti per valorizzare gli incarichi professionali» ma occorre prima abrogare l’articolo 9-quinquies della legge 125/2015. Un’ultima osservazione. In chiusura si accenna al Comitato dei Garanti che deve essere rivisto. Il problema è che tale revisione non discende dalle due pronunce della Cassazione citate (peraltro ce ne sono altre più recenti) ma dalla circostanza che le previsioni del contratto del 2005 circa le funzioni e la composizione del Comitato sono apertamente illegittime alla luce dell’articolo 22 del decreto n. 165 novellato nel 2009.
I punti di forza che possono rilevarsi negli Atti di indirizzo riguardano senz’altro l’esigenza della certezza attuativa e il concetto di «adempimento contrattuale tra le parti». Finalmente si prende atto della possibilità di passaggi all’interno delle categorie (per intenderci da B a Bs e da D a Ds), operazione che fin dal 2010 ritenevo del tutto fattibile, ovviamente a certe condizioni. Buona anche l’idea che l’erogazione dell’intero sistema premiante per la dirigenza avvenga a consuntivo. Anche dalla revisione dell’esclusività e delle sue ricadute economiche ci si aspetta qualcosa di positivo.
Mancano completamente molti aspetti che attendono da anni una definizione contrattuale. Mi riferisco al regime economico delle assenze per malattia per il personale dirigenziale e alla definizione di accessorio (articolo 71, comma 1, della legge 133/2008), al contingentamento di tutte le tipologie di permessi su base oraria (articolo 71, comma 4, della legge 133/2008), alla fruizione dei periodi di congedo parentale su base oraria (articolo 1, comma 399, lettera a), della legge 228/2012), al periodo di prova direttori SC (allineamento del Ccnl all’articolo 4 della legge 189/2012, soprattutto nei riguardi dell’aspettativa), alla riacquisizione del profilo pregresso per il personale in esubero declassato (articolo 5, comma 1, lettera b), della legge 114/2014) e, infine, alla cessione di ferie e riposi (articolo 25 del Dlgs 151/2015).
Poiché sette anni di blocco della contrattazione sono stati lunghi e si è formata parecchia giurisprudenza non del tutto conforme, sarebbe poi necessario puntualizzare la volontà delle parti negoziali in merito ad alcune problematiche fonte di continue polemiche e vertenze: l’orario di lavoro dei Primari, la loro sostituzione, la monetizzazione delle ferie dopo il divieto legislativo, le modalità di accesso alla mensa, il cosiddetto “tempo tuta”, i rimborsi di trasferta.
E già che ci siamo sarebbe quanto mai opportuno dire qualcosa sulla durata massima del contratto a tempo determinato per il personale sanitario e sui limiti della deroga “Balduzzi”, a cominciare dalla stessa definizione di “personale sanitario”.
Stefano Simonetti – Il Sole 24 Ore sanità – 5 agosto 2016