Per i 41.500 dirigenti pubblici arriva la “garanzia” anti-decadenza dal ruolo unico prospettato per loro dalla riforma della Pubblica amministrazione. Con un correttivo approvato ieri dalla commissione Affari costituzionali della Camera, infatti, si prevede che il dirigente potrà decadere solo dopo un periodo di disponibilità « successivo a una valutazione negativa», per cui non basterà più solo un lungo parcheggio per mandarlo a casa. Per capire la questione occorre riandare all’architettura della dirigenza disegnata dalla riforma della Pa, e fondata sul « ruolo unico». In realtà i «ruoli unici» sarebbero tre (per Stato, Regioni ed enti locali), e da questi le amministrazioni dovrebbero scegliere i propri dirigenti a cui affidare incarichi di quattro anni, rinnovabili senza concorso per altri due anni.
I dirigenti senza incarichi sarebbero collocati «in disponibilità», con attribuzione dello stipendio base e della parte fissa del trattamento accessorio. Ma, e qui arriva il punto più critico, «dopo un determinato periodo di collocamento in disponibilità» secondo il testo confermato dal Senato arriverebbe la decadenza. Questo aspetto ha scatenato le proteste dei diretti interessati, nel timore che il rischio di disponibilità e soprattutto di decadenza finisse per dipendere dal tasso di fedeltà alle scelte della politica. L’emendamento approvato ieri, che era stato “promesso” dallo stesso ministro della Pa Marianna Madia, prova a evitare questo rischio, stabilendo appunto che la decadenza potrà riguardare solo chi è stato messo in disponibilità dopo una bocciatura sulle proprie performance. Il problema si sposta allora sulla costruzione di un sistema di valutazione oggettivo, che ha rappresentato una sfida per tutte le riforme della Pubblica amministrazione ma che secondo la Corte dei conti finora «non è mai entrato a regime». Proprio per questa ragione tre settimane fa, presentando il rapporto 2015 di coordinamento della finanza pubblica, i magistrati contabili erano arrivati a parlare a pagina 90 di «controriforma della dirigenza», che «aumenta i margini di discrezionalità nel conferimento degli incarichi».
Nuova procedura per i direttori delle Asl
Sul rapporto fra politica e dirigenza interviene un altro emendamento approvato ieri a Montecitorio, in cui si prevede che per essere scelti dalle Regioni come direttori generali delle Asl bisognerà esprimere interesse per la posizione specifica in palio. L’obiettivo è quello di favorire selezioni fra candidati davvero interessate, limitando le scelte discrezionali dall’elenco nazionale dei candidati.
Prove di addio al «valore legale» della laurea
Un terzo emendamento interviene sulla valutazione, e ipotizza che nei concorsi pubblici si possa valutare, accanto al voto minimo di laurea, anche «i fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato». Il principio è importante, perché le università non sono tutte allo stesso livello e l’ateneo di provenienza è un fattore di valutazione consueto per le assunzioni nel privato, e se attuato rappresenterebbe nei fatti un primo superamento del «valore legale» del titolo di studio. (Gianni Trovati, il Sole 24 Ore)
Oltre al voto conta l’università. L’obiettivo del governo è “migliorare i criteri di valutazione”
Flavia Amabile. Stop alla scelta delle università più generose nell’assegnazione dei voti, un emendamento promette di rendere i giudizi degli atenei equivalenti nei concorsi pubblici: a fare la differenza non sarà più solo il voto di laurea, potrà contare anche l’università da cui si arriva. Lo stabilisce una modifica approvata al ddl sulla Pubblica Istruzione, che parla di «superamento del mero voto minimo di laurea quale requisito per l’accesso» e «possibilità di valutarlo in rapporto ai fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato».
A volere l’emendamento è stato Marco Meloni del Pd dopo il primo via libera al Senato della riforma, il governo l’ha riformulato dando il via alla rivoluzione dei concorsi pubblici annunciata dal governo Renzi. Il voto di laurea finora è stato determinante, al contrario dell’università che rilascia il titolo che invece non ha alcun rilievo. L’emendamento prevede che il voto di laurea possa essere messo in rapporto ad alcuni fattori relativi all’università che lo ha assegnato – dalla tipologia ai meccanismi valutativi degli atenei. Ma potrà essere considerato anche il «voto medio di classi omogenee di studenti». In questo modo si dovrebbero superare alcune possibilità di ingiustizia nel confronto tra diversi partecipanti ad una selezione. Secondo Marco Meloni «A questo punto il voto di laurea viene parametrato in base al voto medio degli studenti di una facoltà. Per fare un esempio, il 102 in una facoltà in cui il voto medio è 100 è diverso dal 102 in una facoltà in cui il voto medio è 108 e quindi gli studenti che vogliono fare un concorso pubblico non scelgono più l’università in base ai meccanismi di attribuzione dei voti che legittimamente sono propri di una facoltà ma in base alla qualità della stessa». Ovviamente il meccanismo sarà definito nei decreti attuativi del ddl Madia.
Sempre sul fronte concorsi viene sancita l’importanza dell’inglese e di altre lingue straniere, la cui conoscenza dovrà sempre essere verificata o come requisito per la partecipazione o come titolo di merito. Cambierà inoltre anche il format dei concorsi, saranno centralizzati o, quanto meno,aggregati. Anche qui l’obiettivo è arrivare a una «valutazione uniforme». Insomma la P.a. vuole evitare di imbattersi in “furbetti” che riescono a spuntarla scovando il varco più facile. Tanto che nel pacchetto di emendamenti sui concorsi, c’è anche la previsione di un polo unico per le selezioni pubbliche, una sorta di agenzia ad hoc che riunisca tutte le diramazioni responsabili in materia. Un’altra novità infine, riguarda l’articolazione degli esami: si va verso una scansione in diverse tappe, con la possibilità di acquisire titoli e superare verifiche che valgono per più concorsi.
Altre modifiche hanno toccato il capitolo dedicato ai dirigenti: la possibilità di licenziamento scatterà, si precisa, solo a seguito di una “bocciatura”, ovvero di una valutazione negativa sull’operato svolto. Non basterà essere privi di incarico per un determinato periodo ma bisognerà avere avuto almeno una volta la possibilità di lavorare e di conseguenza di essere giudicati. Quanto a incarichi direttivi e dirigenziali, viene precisato che anche i pensionati li possono svolgere purché a titolo gratuito e per un anno. (La Stampa)
3 luglio 2015