Nella sua versione finale, il decreto sui licenziamenti per i dipendenti pubblici che vengono colti a timbrare l’entrata senza poi andare davvero in ufficio rafforzerà il calendario corto per la sospensione e la chiusura del procedimento disciplinare, e probabilmente terrà il punto sul rischio licenziamento esteso ai dirigenti che non controllano e sul rimborso per il danno all’immagine proporzionale alla «rilevanza mediatica» del caso. In altre parole, più la vicenda farà scalpore su giornali e televisioni, più pesante sarà la sanzione economica a carico degli assenteisti. Sotto la lente ci sono i dipendenti pubblici pescati in flagrante che, secondo la riforma, dovrebbero essere sospesi entro 48 ore da posto e stipendio per vedersi poi arrivare entro 30 giorni la sanzione, fino al licenziamento. La minaccia del licenziamento, per «omissione di atti d’ufficio», pende anche su dirigenti che non fanno scattare in tempo la sospensione e il procedimento disciplinare.
Inserito in extremis nel primo gruppo di decreti attuativi della delega Pa sull’onda del caso Sanremo, scoppiato a ottobre con 35 arresti e indagini su 271 dei 528 dipendenti del Comune, anche il provvedimento anti-assenteismo è in vista del traguardo dell’approvazione definitiva. Oltre al Consiglio di Stato, anche il Parlamento ha già lavorato sul testo, e l’ultimo passaggio è atteso per la prossima settimana con il parere della commissione Affari costituzionali di Montecitorio (da Palazzo Madama il parere è già arrivato, così come dalla Bilancio anche della Camera). Il testo, com’è inevitabile, arriva all’ultima curva carico di un dibattito teso, e acceso anche dall’incrocio con la partita dei rinnovi contrattuali nella Pa (l’Economia nei giorni scorsi ha dato finalmente l’ok all’intesa sulla riduzione dei contratti nazionali da 11 a 4, che ora attende solo l’esame della Corte dei conti) e con la riforma del testo unico del pubblico impiego e delle regole per i dirigenti.
Proprio l’investimento politico sulla lotta all’assenteismo spiega l’intenzione del governo di confermare l’impianto del provvedimento e alcuni degli aspetti messi in discussione da Consiglio di Stato e Parlamento. È sul calendario sprint, cuore anche comunicativo del provvedimento, che si concentrano però le obiezioni più delicate. In gioco ci sono due esigenze distinte: il diritto di difesa dei dipendenti, la cui mancata tutela rischia di far decadere il procedimento, e la lotta alle tattiche dilatorie dei diretti interessati che potrebbero cercare di salvarsi puntando a far sforare i termini.
Il tema è sostanziale, perché riguarda la possibilità concreta di passare dalle minacce ai fatti, ma la soluzione a cui sta lavorando il Governo poggia su una questione tecnica. Il punto, in sintesi, è quello di fissare modalità e tempi certi per il preavviso al dipendente e per l’avvio del procedimento disciplinare, superando l’impostazione del testo approvato in prima lettura che invoca la partenza «immediata» della contestazione. Senza quest’argine, il rischio è che in giudizio si pretenda l’applicazione dei termini ordinari, che richiedono un preavviso di almeno 20 giorni e imporrebbero alla Pa la missione impossibile di chiudere nei 10 giorni successivi.
Tra le richieste avanzate nei pareri, oltre a quella sollevata dal Parlamento di assicurare un «assegno alimentare» al dipendente sospeso, c’è anche quella di ripensare le sanzioni per i dirigenti, con il licenziamento per omissione di atti d’ufficio per chi ritarda la reazione dell’amministrazione. Qui gli aspetti critici sono due, perché Consiglio di Stato e Parlamento contestano sia l’eccesso di delega sia la possibile sproporzione di un meccanismo che finisce per trattare allo stesso modo sia l’assenteista sia il dirigente, ma il governo potrebbe “resistere” sulla base del fatto che il decreto non introdurrebbe un nuovo reato ma si limiterebbe a specificarne un caso di applicazione. Il punto, del resto, è politico, com’è politica la difesa della regola che chiede di misurare sulla «rilevanza mediatica» del caso i rimborsi per il danno all’immagine, che non potranno in ogni caso essere inferiori a sei mesi di stipendio più interessi e spese di giustizia.
Il Sole 24 Ore – 3 giugno 2016