di Stefano Rodi. Italia non è un Paese per vacche. Lo era, non lo è più: in 20 anni si sono persi due milioni di capi, su un totale di circa sei. Di Varzesi negli anni Cinquanta se ne contavano 50mila, nel 1988 ne erano rimaste 22. La nostra era la nazione con più varietà di razze bovine al mondo. Due, la Grigia val d’Adige e il Bue d’Ischia, si sono estinte. Molte altre rischiano grosso. Quella messa peggio, al momento, è la Pontremolese, quella che tirava a Roma i carri con il marmo di Carrara che Michelangelo usò per fare la Pietà: ne sono rimasti 25 capi. Se le vacche nostrane potessero parlare avrebbero da dire un sacco di cose agli allevatori e ai ministri dell’Agricoltura che si sono succeduti in Italia, tutti allineati in mandria sulla produzione di latte.
E quindi appiattiti sulla Frisona e sulla Brown, razze cosmopolite, in grado di fare anche 50 litri al giorno, ma con una vita che dura un quarto rispetto a quella delle autoctone. Al posto delle vacche si fa sentire Luigi Chierico, un allevatore di 63 anni che ama la natura e la pittura (il suo toro si chiama Van Gogh) e che, nella sua cascina Busto di Ferro, vicino a Pavia e al Ticino, ha raccolto capi di tutte le razze autoctone, e anche qualcuna straniera, per un totale di 250 bovini.
È una tavolozza di colori e pezzature che si muove a quattro zampe: ci sono tutte le mucche, anche quelle che rischiano di sparire per sempre. La Cabannina, per esempio e per il momento, è salva grazie a lui.
Arca di Noè
Quest’Arca di Noè ormeggiata nella Bassa padana però non è un museo, è un’azienda agricola dove ci sono anche ovini e suini, che gira come un orologio svizzero e produce utili; a dimostrazione che in agricoltura, e volendo non solo lì, non conta solo la quantità. Luigi non parla, sbotta: «Biodiversità, biodiversità! Ma cos’è? La biodiversità è la normalità, è quello che esiste da sempre. Siamo noi a essere diventati diversi. Che ci siano tante razze di vacche in un Paese fatto di montagne, colline e pianure è un fatto strano? Gli animali si adattano al territorio nel quale vivono e contribuiscono a preservarlo. Funziona così la natura, è una scoperta? Ma sapete quanti secoli ci sono voluti perché si selezionassero le razze di vacche che vivono in Italia? E noi, in 50 anni abbiamo deciso che ce ne bastava una sola». Errore, madornale: delle 318.207 aziende con bovini attive nel 1990, 20 anni dopo ne sono rimaste 124.210 (dati Istat, Censimento dell’agricoltura); in Veneto -40,2%, in Emilia-Romagna -38,5%. In più, le quote latte hanno contribuito per alcuni anni a mettere ulteriormente in crisi questo settore.
Esempio unico al mondo
«La varietà dell’allevamento della cascina Busto di Ferro», commenta Daniele Vigo, docente di fisiologia veterinaria all’Università di Milano, che collabora a questo progetto, «è un esempio unico in Italia, ma anche nel mondo, e spero che nei prossimi anni sia uno stimolo per le istituzioni e perché nascano altri allevamenti così. Gli obiettivi che si possono raggiungere sono fondamentali, oltre a creare aziende che fanno utili: prima di tutto mettere in sicurezza le razze e poi produrre un latte di migliore qualità (3,5% di grasso contro il 3% presente in quello delle Frisone) che, tra l’altro, ci consente di non perdere una produzione di formaggi che ci ha resi famosi nel mondo. E poi, come la stessa Unione europea già diversi anni fa aveva suggerito, le aziende agricole devono puntare sulla diversificazione. Da noi si è fatto il contrario. Ultraspecializzazione su latte o carne, un po’ in tutto il territorio»
Latte come fontane
Una corsa dietro a vacche di razza Frisona o Brown, come fanno Usa e Canada, con una selezione spinta, sia genetica che alimentare, per produrre latte come fontane: quindi tanti cereali mischiati al frumento, che è e resta il solo cibo naturale per i bovini. «Queste mucche funzionano come le automobili: più benzina sofisticata ci metti, più strada fanno. Ma si usurano prima. E in agricoltura la fretta, alla lunga, non paga. L’insalata non può crescere alla velocità della luce e se pianti un albero di albicocche non devi pretendere di avere sul tavolo la confettura per la colazione del giorno dopo». Saggezza contadina, in bocca a uno scienziato che insegna all’università e ha passato metà della vita in laboratorio e metà a far nascere vitelli e suini. «Abbiamo fatto esami di laboratorio sul latte delle razze autoctone: ha globuli di grasso che sono molto più piccoli di quelli delle razze cosmopolite. Questo è un indice fondamentale per la digeribilità e, al tempo stesso, di un potenziale nutritivo molto più elevato. Questo latte, così come quello di altre razze nostrane, è particolarmente ricco di acido oleico e acido miristoleico, elementi fondamentali per una dieta sana».
Cultura del territorio
Le Varzesi, le Cabannine, le Buldrine, le Piemontesi, le Pontremolesi, solo per citare alcune delle star di Luigi, si tirano dietro la nostra storia, perlomeno quella contadina, che in Italia non è stata poca cosa. Fino al tardo Medioevo le vacche, come si vede anche dai quadri dell’epoca, sono tutte rosse-marroncino, anche se di razze già molto diverse tra loro. Le pezzate rosse compaiono verso il 1600, quelle nere e bianche almeno un secolo dopo. Ogni regione geografica ha le sue caratteristiche morfologiche e l’evoluzione dei bovini è avvenuta tenendone conto e rispondendo alle necessità di lavoro richieste dagli uomini. Sulle montagne ci volevano animali di piccole dimensioni, con baricentro basso, agili, con zoccoli durissimi e anche in grado di saltare, se necessario. Come le Valdostane, le Cabannine, le Pezzate rosse d’Oropa. Solo queste sono in grado di tenere i pascoli in ordine, e quindi anche le piste da sci, e contribuire a evitare il dissesto idrogeologico. Sui rilievi della Liguria, da quando gli allevamenti di queste razze sono spariti, hanno pensato di poter risolvere il problema con i decespugliatori, senza tenere conto che le macchine tagliano l’erba ma, a differenza degli erbivori, non la portano via, con buona pace del rischio incendi. Sulle colline serve invece un animale più alto, forte: devono lavorare nei boschi, trasportando tronchi. Poi nei frutteti e nei vigneti, dove ci vogliono bovini docili e diligenti, pronti a rispondere ai comandi della voce umana: arare i campi tra i filari delle vigne è un lavoro di precisione e visto che l’aratro lo tirano in due, devono funzionare come un metronomo. Di solito servono due anni di addestramento prima che questi bovini siano pronti a dare il loro contributo nel lavoro delle zone collinari, senza per questo smettere di dare latte e, alla fine, carne. In queste zone le razze più apprezzate sono la Varzese, la Piemontese e la Pontremolese. Poi ci sono le loro sorelle di pianura: la Modenese, la Piemontese, la Reggina. Animali più grandi, potenti, adatti per le arature profonde nei campi e con gambe lunghe per lavorare nell’acqua delle risaie.
L’esempio che sale da una valle
Resta la natura a dare la linea, non noi; non capirlo rischia di esporci a pessime figure. Anni fa, alcuni allevatori provarono a portare le Frisone in mezzo alle montagne della Val d’Aveto, pensando di fare il business della vita. Luigi sbotta di nuovo: «Quando le hanno mandate a pascolare sembravano signore con i tacchi a spillo sui sentieri. Gli zoccoli di quella razza sono teneri, e dopo due giorni non si reggevano più in piedi». Proprio in Val d’Aveto, invece, il lavoro di Ugo Campodonico è andato ben diversamente. Nel 2007 ha comprato due Cabannine da Luigi (ecco perché quest’Arca di Noè è fondamentale) e le ha portate nella sua azienda agricola nei pressi di Rezzoaglio. Terreno ideale, vicino a Cabanne, da cui hanno preso il nome visto che in passato era stato questo il principale centro di allevamento. Adesso ne ha 25, sui 200 esemplari totali che vivono in Italia. «La loro produzione di latte è attorno ai 15-20 litri al giorno, e la sua qualità non teme confronti», spiega Campodonico, che lo usa esclusivamente per produrre formaggi e yogurt.
Adattamento
Lui è cresciuto in mezzo alle mucche, la sua è una famiglia contadina: «Mi ricordo che quando mio papà mungeva in una piccola stalla mi metteva a cavalcioni sulla mucca e per me era la conquista di tutto ciò che di bello c’era al mondo». Poi si cresce, la vita è strana, e capita di fare altro: nel caso di Ugo un impiego nel settore sanitario. «Però, quando ho potuto, ho sentito il dovere morale di riprendere il filo della mia storia». E così le Cabannine sono tornate a pascolare nelle loro valli. «I nostri antenati l’hanno allevata senza sapere nulla di genetica», conclude l’allevatore della Val d’Aveto, «ma capendo che era un animale che non aveva costi e si adattava bene a questi luoghi». Tornando in pianura, nella cascina di Luigi la vita scorre liscia come l’acqua del Ticino: «Guardate le mie mucche. Si vede dagli occhi che stanno bene». Ogni mese nasce una dozzina abbondante di vitellini, anche grazie all’inseminazione artificiale, ma il toro Van Gogh non se la prende: «È buonissimo, ha un carattere d’oro e ama le carezze sul muso». Una fortuna, visto che pesa una tonnellata: con lui, che è nell’allevamento da quattro anni, non ci sono mai stati problemi. «Il toro che avevamo prima, Bricco, invece qualche volta saltava nel recinto delle vacche».
Vita da cascina
Vita da cascina dove, in caso di necessità, si deve anche saper governare la furia di animali come questi che, se hanno un carattere meno docile di Van Gogh, possono diventare come Tir fuori controllo. Se un toro scappa, per esempio, bisogna riuscire ad agganciare l’anello di sicurezza che ha al naso con un apposito bastone, poi imbragargli il muso con la capezza e tirargli il muso verso il basso. A quel punto, di solito, torna la calma. «A Carrù, durante una fiera», racconta Luigi, «un paio d’anni fa era scappato un toro e il suo padrone lo aveva ripreso in fretta usando l’anello al naso, che è l’unico sistema possibile. Ma c’era un animalista che si è messo a urlare contro i maltrattamenti degli animali. Allora l’allevatore gli ha messo in mano il suo bastone e gli ha detto: “Allora prendilo tu”». «Nella cultura contadina non c’è mai un gesto di violenza gratuita contro gli animali», commenta il professor Vigo, «primo perché gli animali sono la principale fonte di sostentamento per un allevatore e poi anche perché le vacche i maltrattamenti se li ricordano e, prima o poi, li fanno sempre pagare a chi glieli ha fatti».
Busto di Ferro
Una cascina come il Busto di Ferro, che vive bene perché mette in pratica tradizioni e lezioni che arrivano dal passato, è un punto di osservazione privilegiato per guardare il futuro. In particolare quello portato alla ribalta da un Expo che tra pochi mesi si svolgerà attorno al tema centrale di «Nutrire il pianeta». Davide Rampello, ex presidente della Triennale di Milano che ha curato insieme a Michele De Lucchi il Padiglione Zero, porta d’ingresso all’Esposizione Universale del 2015 di Milano, conosce molto bene l’esempio dell’allevamento di Luigi Chierico. «È un bene culturale vivente, fatto di uomini e di animali. Lasciare che si estinguano queste razze di vacche equivale a perdere capolavori artistici non più recuperabili. Perderne una parte rappresenta un danno culturale prima ancora che economico. Credo che un luogo come questo meriti di attirare l’attenzione del ministero dell’Agricoltura, del Fai e di tutti coloro che hanno la sensibilità per capire che indica una strada importante per tutti». Nel frattempo Luigi sbotta di nuovo. «Quando io non ci sarò più, cosa succederà qui? Dove andranno a finire i miei animali?». Queste sono le domande che lo angosciano e che, a ben pensarci, non riguardano solo lui. Le risposte forse arriveranno dai giovani, come Giulio Curone, uno studente del professor Vigo che, quando ha tempo, viene alla cascina Busto di Ferro per seguire le nascite dei vitellini e per dar da mangiare a Van Gogh.
Il Corriere della Sera – 29 luglio 2014