di Roberto Giovannini. Non ci sono dubbi: il taglio annunciato del 50% del monte ore per i permessi sindacali rappresenta una brutta botta per le centrali sindacali. I distacchi o permessi sindacali sono una caratteristica del Pubblico Impiego, dove i dirigenti sindacali distaccati dal lavoro, mantengono integralmente lo stipendio, pagato però dall’Amministrazione pubblica. Sono attualmente circa 2.500 per un costo annuo, a carico delle casse statali, che sfiora i cento milioni. Alcuni anni fa la legge ne ha disposto la riduzione (erano circa 4mila). Insomma, più che a un aumento della produttività legato alla riduzione delle assenze del personale, il governo sembra essere intenzionato a dare un giro di vite al finanziamento indiretto che i distacchi rappresentano per il sindacato.
I numeri infatti sono relativamente modesti se si pensa all’universo del pubblico impiego, visto che parliamo di poche migliaia di lavoratori equivalenti «mancanti» a causa dei distacchi sindacali retribuiti, su un complesso di oltre tre milioni di pubblici dipendenti. Che però permettono alle organizzazioni sindacali di far funzionare molte organizzazioni proprio grazie al lavoro e all’attività dei pubblici dipendenti distaccati.
Quel che è certo è che un’operazione simile sui distacchi sindacali retribuiti – sia pure di impatto inferiore, circa il 15% – l’aveva compiuta l’allora ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta qualche anno fa, come sottolinea Michele Gentile, coordinatore settori pubblici della Cgil. Che però a nome della sua organizzazione va duramente all’attacco del progetto illustrato da Matteo Renzi e Marianna Madia. Dietro il taglio dei permessi sindacali, previsto nelle linee guida della riforma della pubblica amministrazione, per Gentile «c’è un attacco alle funzioni che la Costituzione dà alle organizzazioni sindacali».
La Stampa – 1 maggio 2014