Daniela Monti, Il Corriere della Sera. I tortelli di zucca con le scaglie di pecorino e il tataki di salmone con riso basmati e piselli. Se però il cane è vegano o vegetariano, meglio il timballo di carciofi e seitan. L’animale ha intolleranze alimentari? Ecco le pennette di riso con crema di formaggio. «Morso e mangiato» (Mondadori), ricettario di alta cucina «per far felice il tuo cane» dove anche l’impiattamento (o inciotolamento) ha il suo peso, scritto dal finalista della passata edizione di Masterchef Almo Bibolotti, è la prova di quanto sia vera la domanda che Hal Herzog — cattedra in Psicologia alla Western Carolina University e uno dei principali esperti delle relazioni fra uomo e animali — ha posto come sottotitolo al suo «Amati, odiati, mangiati» (Bollati Boringhieri): perché è così difficile agire bene con gli animali? Nelle nostre relazioni con le altre specie, le incoerenze più eclatanti sono la norma.
Ma ora sta accadendo qualcosa che va oltre l’incoerenza. Il rapporto con gli animali domestici (degli altri, in genere, ci importa poco, come scrive George Orwell: tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri) è entrato in una nuova fase. Non li trattiamo più come animali: sono diventati famigliari, persone a quattro zampe.
Curiamo con la chemio cani e gatti malati di tumore (negli anni l’incidenza della malattia negli animali è aumentata, le statistiche parlano di un incremento del 150% dal 2001 a oggi). A Napoli, un gatto cardiopatico è stato salvato con un intervento al cuore e l’introduzione di un piccolo pacemaker, studiato per i neonati. Negli ambulatori clinici per animali si sta diffondendo la pratica del «veterinario sospeso», vale a dire la buona abitudine — di chi ha i soldi per farlo — di lasciare una visita pagata che andrà a beneficio di cani o gatti senza padrone. Lo psicologo comportamentale per animali domestici è una delle nuove professioni: a Milano, le tariffe medie sono di 80 euro per un consulto di tre ore, durante le quali il professionista osserva il comportamento dell’animale e dà consigli su come modificarlo, per renderlo più «accettabile». Ci sono cimiteri per animali, asili che ritirano la bestiola al mattino e la riportano a casa la sera, persino bar dove rilassarsi accarezzandoli (i primi sono stati i Cat café, su modello dei Neko Café giapponesi, ora è il turno dei bar con cani docili, pronti all’uso). Dopo il bonus bebé, il bonus dog: sempre più comuni offrono danaro a chi adotta dal canile municipale.
Herzog racconta di aver chiesto a un buon numero di proprietari di animali: cosa sono per voi? Le risposte si riassumono in tre gruppi: 1) i miei animali sono membri della mia famiglia; 2) sono i miei figli; 3) sono i miei amici. Non c’è traccia della risposta che, logicamente, potrebbe sembrare la più ovvia: i miei animali sono solo animali a cui sono molto affezionato.
Perché abbiamo dimenticato che gli animali sono animali? Fernando Savater in «Tauroetica» (Editori Laterza) propone una riflessione presa in prestito dal filosofo spagnolo José Louis Pardo: «L’animalità, come in generale la natura, per noi umani rappresenta sempre un qualcosa di inquietante». E qual è il rimedio più diffuso contro l’inquietudine? L’assimilazione. «Concedere diritti agli animali, alle piante, ai boschi, significa ostinarsi a non permettere loro di essere ciò che sono». Se a qualcuno importasse veramente qualcosa degli animali o della natura, sostiene Pardo, dovrebbe «ribellarsi con le armi dell’intelletto contro simili tentativi di eliminare dal mondo tutto ciò che ci è estraneo».
Noi, possessori di animali domestici, non ci ribelliamo e c’è un secondo sondaggio ad inchiodarci: il 70% ammette di consentire, qualche volta, che dormano sul letto (la mia gatta lo fa sempre); due su tre acquistano regali di Natale per gli animali; il 23% cucina pasti speciali per loro; il 16% in particolari occasioni li veste. Un’indagine Gfk Eurisko del 2013 è arrivata alla conclusione che «in nessun altro ambito o situazione sociale, culturale e relazionale si colgono oggi in Italia dati altrettanto positivi su esperienze di piacere come nel rapporto con gli animali domestici». Che l’antica simbiosi sia entrata in una nuova fase, lo testimonia anche la pratica clinica, sempre più utilizzata, della pet therapy .
L’altro lato della medaglia, però, è la constatazione che, con il crescere d’intensità del legame, abbiamo perso lucidità: in troppi siamo convinti che desiderino e meritino le stesse cose a cui aspiriamo noi. Così accade che il vero business dell’industria di cibi per animali stia nel segmento alto: i marchi di lusso coprono il 20% delle vendite, ma generano oltre la metà dei profitti. Durante la crisi economica del 2008, le vendite di PetSmart, la più grande catena Usa di articoli per animali, sono cresciute dell’8,4%, quelle della farmacia veterinaria PetMed Express del 16.
Tutta questa attenzione, questa «umanizzazione», ci ha fatti diventare più sensibili alla questione animale?
La risposta, purtroppo, è no. Il numero degli antispecisti che combattono contro il massacro quotidiano degli animali (per cibo, vestiario, ricerca, divertimento) non cresce ai tassi percentuali dell’industria delle scatolette. Come dice un animalista americano «se compri al tuo cane un cappotto da 20 dollari per proteggerlo dal freddo, lo fai per lui. Se gliene compri uno da 200, lo fai per te»
Il Corriere della Sera – 24 gennaio 2015