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Stop Ttip. Un milione di firme contro il libero scambio. Dagli Ogm ai farmaci: le paure degli europei. Ricorso alla Corte Ue

accordo usa ueBruxelles, Andrea Bonanni. In due mesi hanno raccolto più di un milione di firme di cittadini europei contrari al trattato di libero scambio con gli Usa e il Canada, il cosiddetto Ttip. Ma la Commissione non riconosce la legittimità dell’iniziativa, e così ora I responsabili di “Stop Ttip”, che unisce 320 organizzazioni di 24 Paesi, hanno presentato un ricorso alla Corte di Giustizia europea per bloccare il negoziato o per ricominciarlo su basi completamente diverse. Da un punto di vista legale, non hanno molte probabilità di riuscirci, perché le leggi di iniziativa europea non si applicano ai trattati o ai negoziati internazionali. Ma un numero così elevato di firme raccolte in così poco tempo pone comunque un problema politico enorme, di fronte al quale né la Commissione né il Parlamento europeo possono restare indifferenti.

Il Ttip, acronimo di Transatlantic Trade and Investment Partnership, è il Trattato che dovrebbe far compiere alla globalizzazione uno storico e decisivo passo in avanti unendo Europa, Canada e Stati Uniti in un unico mercato di quasi un miliardo di consumatori. Ma, grazie anche ad una cattiva presentazione da parte della precedente Commissione Barroso, è divenuto rapidamente il capro espiatorio su cui si sono concentrate ogni sorta di critiche e di accuse. Tanto che, in occasione della sua ultima visita a Bruxelles pochi giorni fa, il segretario di stato americano John Kerry ha spiegato che il Trattato è « vittima di un malinteso che dobbiamo risolvere e risolveremo nei prossimi mesi. Questo è un accordo che punta ad elevare gli standard al massimo livello, non ad abbassarli al minimo».

Nelle ambizioni dei negoziatori, il Ttip dovrebbe essere qualcosa di molto più ampio di un accordo commerciale. Esso prevede tre campi di intesa tra europei e americani: la liberalizzazione dell’accesso ai mercati, con l’abolizione delle tariffe doganali; la convergenza dei regolamenti, in base al principio che un prodotto autorizzato in Europa può essere venduto negli Usa e viceversa, senza ulteriori trafile burocratiche; la definizione di nuove regole commerciali per abolire le barriere non doganali e garantire, per esempio, la tutela dei marchi di origine anche al di là dell’Atlantico.

Secondo la Commissione, che ha appena ricevuto dai governi il mandato per aprire un nuovo round di negoziati e concluderli possibilmente entro il 2015, prima delle elezioni presidenziali americane, i benefici di un accordo sarebbero enormi: 119 miliardi all’anno per l’Unione europea e 95 miliardi per gli Stati Uniti. Le esportazioni dall’Ue verso gli Stati Uniti crescerebbero del 28 per cento, con un aumento di 187 miliardi di euro. In totale le esportazioni europee aumenterebbero del 6 per cento e quelle americane dell’8 per cento.

Ma è evidente che un accordo di questo genere, basato sul principio del riconoscimento reciproco delle autorizzazioni commerciali, comporta una rivoluzione nel mondo dei consumi. I nemici del Trattato sostengono che gli europei saranno invasi da carne agli ormoni, o trattata con antibiotici, di polli sterilizzati con la varechina, di grano e verdure prodotti da colture geneticamente modificate. E che in generale l’Europa subirà la concorrenza sleale dell’industria agroalimentare americana che si avvantaggia di una legislazione meno severa di quella europea. I difensori dell’accordo sostengono che gli europei saranno liberi di scegliere grazie ad un dettagliato sistema di etichettatura, e ribattono dicendo che la produzione europea, di qualità mediamente superiore, sarà finalmente tutelata su un mercato americano che si sta ormai orientando verso prodotti più sani e più raffinati.

Naturalmente l’ago della bilancia penderà da una parte o dall’altra in base alle conclusioni concrete a cui arriveranno i negoziatori. Alcuni settori, per esempio, come l’audiovisivo, sono già stati esclusi dal tavolo delle trattative proprio per tutelare le normative poste a salvaguardia della specificità culturale europea. In altri campi, fa molto discutere la cosiddetta clausola Isds, che consentirebbe alle multinazionali americane di ricorrere ad arbitrati internazionali per aggirare specifiche normative europee. Ma quello che conta, sottolinenano i difensori del Trattato, è che solo mettendosi insieme America ed Europa potranno fare fronte alla concorrenza delle nuove economie emergenti, imponendo a Cina, India o Brasile di adeguarsi ai loro standard qualitativi.

MA QUELL’ACCORDO PUÒ SEGNARE IL DESTINO DEL FALSO “PARMEGGIANO” CHE PIACE AGLI USA.

La partnership allenterebbe le barriere protezionistiche

New York, Federico Rampini. Da consumatore italiano che fa la spesa nei supermercati americani, forse mi verrà risparmiata un giorno l’offesa del “Parmesan” o del “Parmeggiano” (sic)? La smetterà un allevatore dell’Iowa di rifilare agli ipermercati Whole Foods un prosciutto crudo che si pretende uguale al nostro? L’America riserva tante sorprese: tra queste c’è il protezionismo. Perciò la Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), il nuovo trattato Usa-Ue per liberalizzare gli scambi, potrebbe anche rappresentare un progresso per noi. Potrebbe — ammesso che vada in porto, e per il verso giusto — smantellare delle barriere occulte che gli americani usano contro il made in Italy. Non se ne accorge certo il turista italiano che passeggia sulla Quinta Avenue addobbata per il Natale: lì non mancano Armani e Prada, Dolce&Gabbana o Bottega Veneta.

Il protezionismo ci colpisce altrove, con dazi, tariffe doganali, ostacoli regolamentari: dall’agroalimentare ai gioielli, dal tessile ai macchinari. «Gli americani — mi conferma il viceministro Carlo Calenda — non hanno mai riconosciuto i marchi locali, come la denominazione del prosciutto di Parma; per loro esistono solo marchi aziendali». Fino alla “circonvenzione d’incapace” che è l’uso del cosiddetto Italian Sounding, cioè nomi che suonano italiani, assomigliano agli originali, e traggono in inganno la massa dei consumatori meno avveduti. Ma ci sono cascato anch’io, confesso: nella fretta mi è capitato di scambiare l’infame “Parmeggiano” per il prodotto vero.

Sta succedendo qualcosa di nuovo nel maxi-negoziato Usa-Ue. Fino a pochi mesi fa erano gli Stati Uniti a premere dall’alto, e l’opinione pubblica europea a resistere dal basso. Ai summit del G7 e G20, Barack Obama ha presentato il Ttip come «una spinta alla crescita e all’occupazione, su ambedue le sponde dell’Atlantico ». In Europa si denunciavano i pericoli, soprattutto per la salute dei consumatori: il Ttip veniva visto come il cavallo di Troia delle multinazionali Usa per invadere il Vecchio continente con Ogm, manzo agli ormoni, pollo alla clorina. Altra paura: un assalto dall’America ultra-liberista contro i servizi pubblici. O contro “l’eccezione culturale” cara ai francesi. Si denunciava la segretezza delle trattative, un tema fatto proprio anche dal Nobel americano Joseph Stiglitz.

A qualcosa l’allarme è servito. L’Unione europea ha reso pubblico il “mandato negoziale”, accogliendo le richieste di trasparenza. Il principio di precauzione europeo resterà in piedi contro gli Ogm. Eccezione culturale e servizi pubblici resteranno fuori dal Ttip. Resta una clausola molto controversa, l’Investor to State Dispute Settlement (Isds), che consentirebbe alle imprese private di far causa agli Stati davanti a una corte arbitrale per annullare provvedimenti considerati discriminatori. Sul New York Times un esperto latinooamericano, Manuel Perez-Rocha, spiega il pericolo di questa clausola: impugnata dalle multinazionali, può interferire con la sovranità degli Stati, soprattutto i Paesi emergenti. C’è un rovescio della medaglia, spiega Calenda: «Le imprese italiane che si sentono discriminate dal protezionismo di Stato in Cina, per esempio, da questa clausola già esistente nei trattati hanno l’unica speranza di tutela».

L’Italia è diventata una sostenitrice del Ttip, perché potrebbe aprirci nuovi sbocchi su un mercato Usa che vale già oggi 30 miliardi di euro all’anno per il made in Italy. Il ministro degli Esteri Gentiloni ne parlerà col suo omologo John Kerry a Washington martedì prossimo. Nel frattempo è qui in America che il vento gira contro il Ttip. La disfatta dei democratici alle elezioni di novembre ha peggiorato lo stallo. I repubblicani, che ora controllano l’intero Congresso, sono liberoscambisti e potrebbero votare sì al Ttip: ma sono anti-Obama in modo così viscerale che difficilmente approveranno un’iniziativa del presidente. La minoranza democratica è sensibile alle resistenze dei sindacati, che nell’altro trattato verso il Pacifico vedono nuovi rischi per i lavoratori. E Washington si accorge che questi trattati sono a doppio taglio: il Canada sta facendo una battaglia legale contro Buy American, la clausola protezionista che ha bloccato l’accesso agli stranieri nel business delle commesse pubbliche e grandi opere.

Repubblica – 5 dicembre 2014 

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